Per la maggior parte delle soluzioni che hanno portato ad un certo progresso nel mondo della tecnica, un periodo di rodaggio dove vedono la luce esperimenti ed applicazioni empiriche è sempre risultato necessario, ottenendo sovente delle risultanze non in linea con quanto preventivato, così ha voluto rispettare la regola anche l’introduzione dell’effetto suolo nelle corse automobilistiche.
Solitamente è opinione diffusa far coincidere l’epoca dell’effetto suolo con la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, in quanto testimoni diretti di un’epopea tecnica tanto efficace quanto pericolosa però, i primi sentori che qualcosa stava cambiando nella tecnica delle vetture da pista si ebbero nel decennio precedente negli Stati Uniti d’America.
Nel Nuovo Continente fu infatti Jim Hall il primo a realizzare, per le gare Can-Am e per il mondiale Sport Prototipi, una vettura dotata di un profilo alare montato in posizione sopraelevata nel retrotreno della macchina, cercando di sfruttare l’ala per incrementare la forza deportante responsabile di una cospicua parte dell’aderenza delle ruote posteriori. Hall non fu il solo, visto che di lì a poco anche nelle monoposto di Formula 1 iniziarono a comparire profili alari montati su supporti verticali notevolmente alti rispetto alla vettura, fra le quali si ricordano la Lotus 49 ideata da Colin Chapman e la Ferrari coeva disegnata da Mauro Forghieri, ottenendo sulla carta tangibili risultati sotto il profilo della deportanza, correlati però, come vedremo, a gravi problemi di resistenza strutturale forieri di minare la sicurezza di marcia delle vetture.
L’idea di montare un profilo alare su supporti verticali deriva dal tentativo di posizionare il dispositivo aerodinamico in una zona dove l’aria sia priva di vortici e turbolenze derivanti dal rotolamento delle ruote e dalla penetrazione del corpo vettura nell’atmosfera, utilizzando le conoscenze aerodinamiche sviluppate in modo efficace dai reparti scientifici delle industrie aeronautiche.
I vantaggi teorici dell’introduzione delle vetture con l’alettone posteriore (e dopo poco anche all’anteriore) possono riassumersi nei seguenti punti:
-
Aumento della forza deportante e quindi dell’aderenza del retrotreno.
-
Possibilità di affrontare le curve ad una velocità più elevata.
-
Ottenere una vettura più stabile alle alte velocità nei lunghi rettifili grazie al “maggior peso” gravante sulle ruote.
Per contro però, la pista fece emergere diverse problematiche che, sulla carta, con i mezzi scientifici di allora, non erano di immediata individuazione:
-
La scarsa efficienza dell’ala alle basse velocità in quanto il profilo alare garantisce deportanza in modo proporzionale alla velocità, infatti la resistenza aerodinamica di un qualsiasi oggetto dipende dal quadrato della velocità con la quale si muove.
-
Notevole dispendio di potenza nella marcia rettilinea, in quanto i profili alari rappresenta un vero e proprio muro che ostacola l’avanzamento.
-
Nei rettifili le vetture assumevano spesso un assetto “portante”, ossia tendevano a sollevarsi all’avantreno in quanto le pressioni aerodinamiche erano sbilanciate verso il retrotreno. Per ovviare a questo problema iniziarono a proliferare le alette anteriori, ottenendo però risultati tangibili solo nei primi anni Settanta quando le auto iniziarono ad essere modellate anche nella carrozzeria per creare deportanza.
-
La guidabilità delle monoposto, sia di Formula 1 che delle categorie americane, spesso era vittima dell’instabilità creata dalle spinte laterali dell’aria che impattava i profili alari (che funzionano a dovere solo con l’aria che li colpisce frontalmente), provocando dei momenti di rotazione (in pratica degli effetti-leva) amplificati dalla grande altezza dei supporti dell’ala posteriore.
-
Durante la fine degli anni Sessanta, il graduale miglioramento delle mescole degli pneumatici rendeva ardua la comprensione del confine fra i meriti degli stessi e quelli dei profili alari nel creare aderenza, provocando più di qualche imbarazzo fra tecnici e piloti.
-
I supporti dell’ala posteriore erano sovente messi in crisi dal punto di vista della resistenza strutturale, in quanto le forze aerodinamiche che spingevano sull’ala si ripercuotevano con effetti di flessione, taglio e torsione sui tralicci di sostegno, provocandone a volte il collasso, come avvenuto, ad esempio, nel Gran Premio di Spagna del 1969 al Montjuic di Barcellona.
Osservando gli esiti concreti alquanto altalenanti delle prime vetture da corsa che sfruttavano l’aria per andare più veloci, Colin Chapman, progettista della Lotus, iniziò a dedicarsi allo studio di monoposto con la carrozzeria profilata in modo da generare deportanza senza ricorrere ad ali di grandi dimensioni, come sulla Lotus 72 che riprendeva i concetti del modello 56 studiato per Indianapolis. Sulla falsariga del mai troppo rimpianto Colin, vedevano la luce modelli dalle alterne fortune come la March 70 e la Ferrari 312 B3 detta “Spazzaneve”, monoposto sfortunata rimasta allo stadio di prototipo che però molto ha lasciato in eredità alle vetture degli anni successivi.
La pietra miliare che diede il via alla vera epoca dell’effetto suolo venne però concepita oltre oceano da Jim Hall, che nel 1970 disegnò la Chaparral 2J (in foto) per le gare Can Am, conosciuta dagli appassionati anche come “auto aspirapolvere”. Questa macchina fu la prima applicazione concreta di quanto Bernoulli aveva scoperto qualche secolo prima, impiegando però un sistema meccanico di ventole aspiranti anziché conformare il fondo alla stregua di un Tubo di Venturi. Difatti, la Chaparral 2J presentava una curiosa carrozzeria squadrata, con installati nel retrotreno due grossi ventilatori azionati da un motore ausiliario a due tempi, che con la loro rotazione aspiravano l’aria dal fondo dell’auto, generando quindi la depressione che “incollava” al suolo la vettura. L’idea era geniale quanto efficace, in quanto i ventilatori generavano una deportanza di circa 1,3 volte il peso dell’auto, regalando così un’aderenza del retrotreno notevolmente accresciuta. Tutto questo, assieme all’introduzione delle “minigonne”, in una resina plastica molto resistente all’attrito con l’asfalto (il Lexan), ai lati della carrozzeria che garantivano una sigillatura quasi totale della zona in depressione, comportò la probabile nascita di una nuova famiglia di vetture molto performanti, stroncata però alla fine del 1970 su decisione della federazione americana che mise la Chaparral 2J fuori legge perchè ritenuta pericolosa. Nonostante la proibizione, la via risultava segnava, tanto che nel Vecchio Continente gli studi in materia iniziavano a farsi intensi e dopo poco cominciarono a vedersi i primi risultati tangibili.
Continua
Jona Ceciliot
Share this content: