Durante lo svolgimento del campionato 1979 è stato possibile assistere all’interessante contrapposizione tecnica fra vetture ad effetto suolo e monoposto ancora radicate ad una concezione tradizionale della meccanica di una Formula 1.
Se nel 1978 ha avuto la meglio una macchina innovativa come la Lotus 79, tutta votata ad un efficiente sfruttamento dell’aria che scorre sotto le pance laterali, la stagione seguente ha, per certi versi, rappresentato un passo indietro per le vetture ad effetto suolo, vista l’affermazione nelle classifiche piloti e Costruttori della Ferrari 312T4, erede fortunata della dinastia delle vetture con motore piatto e cambio trasversale nate nel 1974.
La monoposto italiana, frutto di un lavoro di affinamento lungo oramai più di un lustro, è riuscita ad aggiudicarsi la doppietta iridata con Jody Schekter e Gilles Villeneuve approfittando della confusione che regnava fra i principali avversari, figlia di un forsennato inseguimento a quanto mostrato dalla Lotus di Colin Chapman nelle due annate precedenti, generando una serie di vetture non sempre all’altezza delle aspettative.
A rimanere vittima essa stessa dell’irrefrenabile sperimentazione sull’effetto suolo fu, in prima persona, proprio la Lotus. Infatti, la scuderia britannica ideò e mise in pista il modello 80, caratterizzato dall’assenza di appendici aerodinamiche sopra il corpo vettura, da una carozzeria profilata a forma di collo di bottiglia nella zona posteriore e da un perimetro del fondo macchina interamente dotato di minigonne a scorrimento mobile, sulla carta il meglio possibile per sfruttare l’effetto Venturi per generare aderenza. Una volta in pista però, la Lotus 80 denunciò carenze gravi ed irrimediabili senza stravolgere del tutto il telaio, costringendo lo staff di Colin Chapman ad utilizzare ancora la 79 dell’anno precedente, non più sviluppata per scarsità di mezzi economici, terminando la stagione con pochissimi punti fra i Costruttori.
A suffragio della bontà dei concetti espressi dalla Lotus 79 può essere presa come esempio la miglioria nelle prestazioni della Ligier JS11, molto somigliante nelle forme esterne alla macchina inglese ma, dopo aver mostrato buone cose, la difficoltà dei tecnici francesi nell’approcciarsi con l’effetto suolo, comportò uno stallo nello sviluppo, a tutto vantaggio delle due Ferrari 324T4. Sempre grazie ai i Costruttori transalpini, il 1979 ha segnato il punto di svolta per una nuova sfida tecnica, i motori turbocompressi; infatti al Gran Premio di Francia si è visto salire sul primo gradino del podio la Renault di Jean Pierre Jabouille spinta dal propulsore sovralimentato, capostipite di un’era tecnica che abbraccerà gran parte del decennio successivo.
Archiviata la stagione 1979, la cui seconda parte ha comunque consentito alla Lotus di dedicarsi allo studio del modello 88, ancora più estremo ed avveniristico, in chiave 1981, ed alla Williams di risolvere i problemi di torsione del telaio che fino ad allora avevano afflitto la FW07, parecchio interessante sotto il profilo aerodinamico, gettando le basi per la conquista del titolo del 1980, rimaneva da capire se ancora valesse la pena spendere cospicue somme di denaro per l’effetto suolo. L’interrogativo infatti, sorgeva spontaneo in quanto a portare a Maranello i titoli era stata una vettura tutto sommato tradizionale, che sfruttava solo in minima parte i benefici del tubo di Venturi sotto le fiancate.
La macchina italiana, dotata di cambio trasversale e di un motore a dodici cilindri “piatto”, cioè con la V dei cilindri avente un angolo di 180°, non poteva godere di un forte effetto suolo, in quanto il motore piatto era parecchio largo, impedendo così la creazione di condotti convergenti-divergenti sotto le fiancate di dimensioni adeguate. Nonostante questo handicap rispetto ai principali antagonisti, la 312T4 poteva approfittare di una buona aderenza garantita dal felice connubio fra le sospensioni e le nuove Michelin radiali, e di una facilità di messa a punto generale sconosciuta alle vetture ad effetto suolo, però la stagione successiva farà capire che anche l’architettura tradizionale delle Ferrari sarà da archiviare, visti i pessimi nel risultati in pista della 312T5, ultima vettura di Maranello ad impiegare il motore piatto.
Nel 1980, la concomitanza di esperimenti aerodinamici forse troppo arditi e di una generale confusione fra quale potesse essere la migliore soluzione motoristica fra gli aspirati ed i turbo, portò alla conquista del titolo la Williams FW07 di Alan Jones, buona macchina dal punto di vista dell’effetto suolo che ben si sposava con il classico V8 Cosworth, dopo aver risolto i problemi di torsione al telaio manifestatasi l’anno precedente. Questa osmosi vincente fra motore “classico” ed una vettura non troppo spinta aerodinamicamente, provocò ancora una volta una certa confusione fra i Costruttori, visto il nuovo fallimento della Lotus 81, una vettura di transizione in attesa della futuristica 88, la completa debacle delle Ferrari e la stagione interlocutoria in casa Brabham, con in vista anche la messa al bando delle minigonne mobili, ritenute pericolose e foriere di provocare incidenti.
L’ impiego delle bandelle ad altezza fissa rimase concretamente solo sulla carta, in quanto il geniale Gordon Murray introdusse sulla BT49C delle sospensioni idropneumatiche che, a vettura ferma, garantivano la regolamentare altezza da terra, per poi abbassarsi gradualmente all’aumentare della velocità, andando così a sigillare nuovamente il fondo vettura al suolo. La Brabham, che conquisterà l’iride del 1981, oltre ad aver “aggirato” lo spirito del regolamento, fu per certi versi la responsabile di una nuova strada tecnica, l’irrigidimento esasperato delle sospensioni alla alte velocità per sigillare meglio le minigonne all’asfalto, cosa resa agevole mediante l’impiego dei sistemi idropneumatici simili a quello della leggendaria Citroen DS.
Quanto introdotto da Murray fu comunque poca cosa rispetto a ciò che avrebbe fatto vedere la Lotus, dopo tre anni di gestazione, con il modello 88. Questa vettura, dotata di un doppio telaio, sembrava rappresentare la pietra filosofale per coniugare effetto suolo, sospensioni rigidissime e facilità di guida. Chapman ed il suo staff, convinti nonostante tutto che l’effetto suolo rappresentasse il futuro, idearono una vettura nella quale il pilota alloggiava in una cellula rivestita da una carrozzeria mobile la quale, al crescere della velocità, veniva schiacciata al suolo per creare (stavolta senza minigonne) l’effetto suolo; tutto questo era a sua volta connesso meccanicamente ad un telaio a sospensioni “morbide”, che doveva garantire la guidabilità e la trasmissione delle potenza a terra. Era a tutti gli effetti una vettura dotata di due telai interagenti fra di loro, proprio per evitare l’eccessivo irrigidimento delle sospensioni, foriero di problemi alla schiena dei piloti, ottenendo però la messa al bando immediata da parte della Federazione. L’esclusione per motivi regolamentari fu solamente un fattore secondario, in quanto la Lotus 88 difficilmente avrebbe potuto disputare un intero Gran Premio, infatti il telaio mobile tendeva ad essere “asportato” a causa dell’aria che si infiltrava in fessure e giunzioni, vanificando totalmente l’effetto suolo, rendendo così estremamente instabile e pericolosa la monoposto.
Come spesso la storia della Formula 1 ha insegnato, l’adozione di regolamenti per la riduzione delle prestazioni sovente risulta vana, in quanto il progresso tecnico e della ricerca scientifica riesce spesso a trovare delle soluzioni alternative ancora più efficaci (almeno per via teorica), comunque il problema fra le vetture ad affetto suolo era ben più grave, in quanto più passava il tempo più avanzava l’idea della pericolosità delle vetture nel caso venisse a mancare la depressione del fondo vettura. Le avvisaglie di una progressiva messa al bando di questa tipologia di monoposto si erano viste diverse volte, con incidenti anche gravi dove si poteva sospettare un cedimento od un un imperfetto funzionamento delle minigonne, come ad esempio per l’uscita di pista fatale a Patrick Depailler nel 1980 ad Hockenheim, dove si pensa possa essere stato un sobbalzo a far entrare aria sotto la vettura, generando la sbandata ad una velocità di circa 300 chilometri orari.
Con gli anni, con l’obiettivo di evitare una crescita delle velocità in curva sempre maggiori, si è cercato di giungere gradualmente a delle monoposto dotate di fondo piatto senza minigonne, generando il leit-motiv della ricerca aerodinamica sull’efficacia del corpo vettura in vigore, per certi aspetti, ancora oggi.
Continua…
Jona Ceciliot
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