C’era un tempo in cui Dakar voleva dire Africa. C’era un tempo in cui il termine Africa significava “Hic sunt leones”. La natura servita per essere sfidata. Un uomo, peggio ancora se pilota, non può fermarsi all’evidenza, deve accelerare, gettare il cuore oltre l’ostacolo, atteaverso lo spazio infinitamente esteso. Col deserto non scherzi per una semplice questione di lotta per la sopravvivenza, ma a volte oltre alla sabbia c’è di più: bombe, attentati, il subbuglio di un popolo nomade, proprio come quello dei piloti stessi. Unica costante fra questi due mondi così distanti è la darwiniana legge di conservazione dei corpi. Correre la Dakar è una cosa strana, la metafora della vita stessa, orientarsi in un deserto senza intravedere la metà; affidandosi all’istinto da vivo e alla ragione quando più morto che vegeto.
Lo avevamo detto lo scorso mese, sperando che il tempo lo avrebbe smentito, ma ora ci tocca farne la cronaca. Prendete le storie, le magie, le tappe “da uomini matti”, passaggi per quei posti chiamati Atlas, Gouelmim, Zagorà ed il mostruoso Erg, che nel ’94 costrinse quasi tutti i concorrenti ad arrendersi al mare di dune, scendendo verso Nouhabidou. Mettete tutto nella valigia dei ricordi, insieme al vero Montecarlo coi suoi passaggi da brivido sul Turini o i salti di un 1000 laghi recentemente spianati. Sbattete tutto nel dimenticatoio. Segno di un mondo che cambia, di uno sport del progresso, nato per andare contro le leggi della natura e dell’avventura che in un unico gesto, spietato e crudele per i cantori di questa tragedia, rinnega la sua stessa essenza. La Dakar, che era rimasta insieme a quel poco sopravvissuto dell’endurance europea ed americana l’ultima roccaforte dei romantici, ora non ci sarà più, strappata dal suo habitat naturale, portata in un Sud America senza gloria ne storia. Da disputarsi fra un Argentina smaniosa di far rinascere il prestigio del raid “Por las Pampas” e un Cile da poco affacciato ad uno stile di corse mai entrato nel cuore dei cileni. Forse i più sognatori vorrebbero il Perù, per morire senza soffrire, per avere una rapida morte, gloriosa ma comunque lancinante, perchè il raid peruviano resta ancora qualcosa di sobrio, intaccato dal protezionismo della FIA. Si corre ancora in due settimane e non è un caso che pure il vecchio KKK- Juha Kankkunen-, per riscoprire la sfida, sia andato fra le Ande l’anno passato. Intanto nell’Europa che brucia si continua a parlare, con un ASO che spinge per la creazione di una Raid Series, per la quale Ungheria e Tunisia, insieme presumibilmente al Rally dei Faraoni, possono già ritenersi iscritte. Già, il raid, quella espressione del motorismo che “Le Matin” chiamerebbe il vero motivo dell’esistenza di un’automobile, come fecero quando inventarono la Parigi- Pechino, una corsa che neppure ad un genio maligno sarebbe passata per la sua mente diabolica. Un modo di correre, ma anche di vivere, difficile da ritrovare, perchè è nella solitudine di un deserto che l’uomo capisce se stesso, chiedendosi per quale maledetto motivo si trova a spingere un accelleratore mettendo in gioco la propria vita. Ma un pilota non ha tempo di pensare, un appassionato si, un malato da manicomio che vive per sentire brividi che partono dalla testa per avvivare dritti al cuore, facendo vibrare come corde di un piano vene, arterie e capillari. Come cantavano i “Ricchi e poveri”: “Sarà quel che sarà…”. A noi resta comunque la memoria.
Giacomo Sgarbossa
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